Siccome a molti di voi, leggendo il blog, è venuto il ragionevole sospetto che io abbia vinto la lotteria e sia qui a giro per l’Asia a spassarmela facendo una segaccia nulla da mattina a sera, ho deciso finalmente di parlare del mio lavoro. Cosa che faccio anche volentieri perché dopo quasi tre mesi di permanenza qui comincio a uscire dal delirio della continua novità e ad avere un’idea più chiara sulla questione.
Quello che mi ha aiutato di più a formulare un giudizio rispetto a ciò che sto facendo è una duplice domanda che mi è stata posta da una carissima amica e collega italiana: “Ti piace il lavoro lì? Impari?”.
Ci ho fatto una bella pensata su (circa una mezz’ora, credo, il che è un tempo lunghissimo per me che ho la capacità di riflessione su di me di un criceto in letargo) e ho capito di dover attingere a un criterio “nuovo” per dare un giudizio sul mio lavoro qui, rispetto a quello con cui l’ho sempre giudicato quando ero in Italia.
Provo a spiegarmi.
Sono uno che ama l’architettura, e che nella vita avrebbe difficilmente potuto fare qualcosa che non comportasse l’uso della progettualità, della creatività, della “immagine”, direi, nel senso più ampio.
Mi piace l’idea di concepire uno spazio, di inventare cose, di raccontare facendo uso più del segno che della parola.
E pur non essendo mai stato, purtroppo, uno di quelli fissati con le riviste di architettura, con i dettagli tecnologici, con la venerazione delle archistar, mi rendo conto di questa mia indole innata quando vado in giro e mi capita di stare a naso all’insù a osservare per ore cose a cui qualsiasi essere sano di mente non presterebbe la minima attenzione.
Certo è che dopo dodici anni di onorata (?) carriera nel settore avevo anche maturato un mio approccio, un mio gusto, un mio “linguaggio”, di tipo fortemente contemporaneo, ed era chiaro che per me l’aspetto più gustoso del lavoro consisteva proprio nella prima parte del processo creativo: quella più “concettuale”, se vogliamo.
Arrivando qui, e trovandomi a fare quello che faccio, ho dovuto rivedere un po’ tutto quello che avevo acquisito in questo tempo: se non altro, “l’idea” che mi ero fatto di me.
1) “Ti piace?”
Il mio compito qui è quello di una “consulenza”, si direbbe. Sono l’Artistic Supervisor del Contruction Site per un Outlet per Grandi Brands di proprietà di una società che opera in campo internazionale.
L’outlet, non diversamente dall’Italia, è qui un concetto diverso dallo Shopping Mall: all’outlet ci si va in gita la domenica, ci si passa la giornata intera… L’outlet è distante dalla città, anche geograficamente: è un mondo parallelo, perfetto, ospitale, in cui tutto contribuisce a che tu ti senta a tuo agio… e metta conseguentemente mano al portafogli.
Per far questo il modo più semplice (banale, forse? qui potremmo aprire un dibattito di ore…) è quello di attingere a un immaginario antico e consolidato, che più di ogni altro incarna universalmente, se non altro in maniera epidermica, il concetto di “vivibilità” dello spazio urbano: quello del borgo toscano/rinascimentale. Non nascondo che all’inizio ho faticato all’idea di confrontarmi con questo tipo di linguaggio (alcuni ricorderanno qualche mio sermone sul “finto storico” al riguardo), e col fatto di diventare l’esecutore materiale di un progetto non mio… ma poi la cosa ha cominciato a divertirmi.
Ho capito così di poter affrontare questo incarico quasi come un lavoro di pura scenografia, sebbene utilizzando cemento armato, acciaio e vetro invece di legno e cartapesta (con tutti gli accorgimenti del caso), e ho trovato curioso che si cerchi di ricreare un contesto del genere proprio dall’altra parte del mondo, in un luogo in cui il concetto stesso di tradizione è di fatto azzerato da una cultura, quella cinese odierna, ormai priva di memoria storica. Di sicuro l’ho considerato più accettabile qui che non in Italia, dove un Rinascimento “posticcio” può risultare ridicolo, se vogliamo, al cospetto di quello vero, visibile così a pochi chilometri di distanza.
Per me, quindi, che vado matto per l’arte contemporanea, che fra le due scelgo sempre la soluzione più “minimalista”, e che ancora vorrei progettare un grattacielo di 500piani (o semplicemente la dimora moderna e luminosa di un uomo felice) questo tipo di approccio è stato un tornare sui miei passi tutt’altro che scontato.
D’altro canto, mettiamola così, questo ha dato un senso esplicito e pragmatico a paginate di storia dell’architettura studiate ai tempi dell’Università, e a decenni passati a passeggiare per le nostre città italiane, immagazzinandone, anche inconsciamente, l’essenza e il gusto.
Così ho incassato il colpo e mi sono buttato nella mischia.
“Venduto”, direbbero i puristi.
Ma fondamentalmente io, del giudizio dei puristi, me ne sbatto.
2) “Impari?”.
Imparare imparo eccome: il semplice fatto di confrontarti ogni giorno con una prassi costruttiva così frenetica e così distante da quella in cui hai sempre operato ti apre la testa a infinite possibilità, e ti fa affacciare a un mondo differente.
Ma l’esperienza che costituisce la vera novità del mio lavoro qui è quella della “Gratificazione”.
Badate che non ne parlo in senso (esclusivamente) economico: mi riferisco piuttosto al fatto che per anni e anni di libera professione, per seguire un lavoro, o anche soltanto per creare le condizioni per farlo partire, ho combattuto quotidianamente contro l’inerzia della pubblica amministrazione, la logica del tornaconto e la generalizzata idea che in fondo il tuo lavoro, che consiste in un servizio di tipo non “materiale” ma “intellettuale”, ha un valore sindacabile, e che a giochi finiti si può fare a meno di te, e di riconoscerti un merito.
Qui vedo orde di cinesi che lavorano come matti tirando su dal nulla un villaggio commerciale grande come il centro della mia città in Italia, e che di fronte a un problema, anche banale, si fermano, si affacciano alla tua porta e si avvicinano, pendendo letteralmente dalle tue labbra: chiedono la tua approvazione per la scelta di un colore, di un materiale, o la finitura di un dettaglio, e riconoscono in prima istanza che tu sei stato messo lì perché possiedi una capacità di sintesi, una completezza dei fattori in gioco, o anche banalmente un “gusto” che è il TUO e che quindi vale, a prescindere, e deve essere seguito.
Non è una questione di “avere il potere” (ogni mia decisione tra l’altro è vagliata da appositi tecnici e Project Manager e per cui ho tutt’altro che l’ultima parola su tutto): si tratta invece di scoprire che tutto quello che faticosamente hai acquisito con l’esperienza di anni adesso porta un contributo chiaro; un contributo al quale si dà spazio e per cui si investono tempo e denaro… Questo ti fa sentire effettivamente “valorizzato”, a maggior ragione in un contesto in cui tutto gira a una velocità pazzesca, e per cui davvero avverti che l’aria, per te, ha il profumo dell’opportunità.
Per cui sì, ecco, imparo.
Imparo cose nuove, tante… imparo l’inglese tecnico, imparo cosa vuol dire avere una scrivania nel mezzo di un cantiere sperduto nel nulla, dove trascorro 10 ore al giorno senza pause disegnando con una mano e mandando mail con l’altra, imparo nuove tecniche costruttive… Ma è bello scoprire come tutto questo dà anche valore a tutto quello che “so già”, a tutto quello che la mia professione è stata fino a che non ho deciso di montare sull’aereo che mi ha portato qui. E questo mi permette, finalmente, di respirare, di vivere i miei spazi, e guardare al futuro fino a concedermi il lusso di chiedermi “Cosa vuoi fare?”.
Questo è gratificante.
E di questo sono grato a chi mi ha dato, e mi dà, l’opportunità di fare questa bella esperienza.
(Tempo di lettura: Deuteronomio)
Ho dovuto impiegare tutta la mia pausa , ma ne è valsa la pena
Ti adoro!
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Quanta voglia mi metti di imparare e crescere! Detto da una novellina che si è abilitata alla professione appena un anno fa!
Questo é uno dei complimenti piú belli che abbia mai ricevuto. Ti ringrazio davvero tanto. In bocca al lupo e testa alta.
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