61. Expats e muri di gomma

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I bilanci non sono una cosa che mi piace particolarmente fare. Mi annoiano a morte, mi mettono a disagio, e mi costringono a pensare. E quindi non li faccio mai.
(Non faccio mai gli estratti conto, mannaggiammé, figuriamoci i bilanci…)
Peró oggi é un anniversario importante.
Proprio oggi, un anno fa, con un colloquio su Skype al quale mi ero preparato posizionando il laptop di fronte al diafano plastico due metri per due che campeggia sulla parete dello studio nella mansarda di casa – e indossando la camicia “buona” sui pantaloni del pigiama -, la Cina entrava prepotentemente nel mio orizzonte.
Credo me la ricorderó a lungo come una data piuttosto importante perché, insomma dai gente diciamocelo, non capita tutte i giorni che ti alzi la mattina pensando che sia una come tutte le altre e ti trovi di fronte a una “rivoluzione copernicana” prima di mezzogiorno.

Mi sembra ieri e allo stesso tempo sembrano essere passati anni luce.
Se penso a quella che era allora la realtá con cui tutti i giorni avevo a che fare mi sembra cosí distante – e non solo geograficamente – dal mondo in cui sono immerso ora, come si trattasse di un’altra persona.
Eppure ancora adesso (certamente amplificato dal fatto che Beijing é ancora piú “imponente” di Guangzhou) ci sono cose a cui non riesco a fare l’abitudine, che non riesco a sfangare, e questo non mi fa sentire ancora “a casa mia”. Voglio dire, il lavoro mi piace, tanto, mi trovo molto bene con le persone con cui mi trovo a collaborare a stretto contatto, mi dá gusto progettare cose che ancora non sono, e come faccio per l’architettura sento di avere l’opportunitá di farlo per la mia vita, e mi trovo a chiedermi “Cosa vuoi fare? Dove vuoi andare? Cosa vorresti cambiare?” esattamente come faccio tutti i giorni di fronte a piante e prospetti. E questo é un lusso non da poco.
Ma quando metti i piedi fuori dallo studio, quando il tuo tempo non é scandito dal lavoro, é ancora come se tutto ti ricordasse ogni minuto che sei un pesce fuor d’acqua.

Un aspetto che ha certamente una sua rilevanza é l’enorme difficoltá (almeno per me) a entrare in rapporto con la “popolazione autoctona”.
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio: i “local” di cui sono circondato (da Jeffrey a Jingjing, da Ahao a Tony) sono assolutamente gentili, “friendly” e quasi “premurosi”, direi, nei miei confronti. E c’é il lavoro a fare da tramite, il che offre una buona “piattaforma comunicativa” almeno nelle otto (facciamo nove..? a volte dieci) ore che ci trascorri assieme ogni giorno.
Ma il primo “impatto” con i cinesi é certamente diverso…. e quando l’impatto in questione é quello di un miliardo e mezzo di persone che si muovono in gregge e che ti circondano, sempre, costantemente, ingombranti come una marea perennemente agitata, concorderete con me che anche il primo impatto assume una certa rilevanza.
Ci sono cose, ad esempio, che proprio non riesco a metabolizzare.
Il punto non é soltanto che devi camminare per strada evitando gli sputi della gente e che non é improbabile che il tipo seduto accanto a te in metropolitana rutti ininterrottamente a bocca spalancata per tutto il tragitto senza che nessuno batta ciglio.
Il punto é che i cinesi sono effettivamente egoisti. Pensano soltanto a loro stessi. Non perché siano di per sé “cattivi” o “ostili” ma, credetemi, sono assolutamente privi di “senso dell’altro”. Il che é una cosa che mi fa uscire dai gangheri peggio di qualunque altra. Sono capaci di passarti sopra con la macchina o lasciarti incastrato nella porta scorrevole piazzandosi in mezzo all’ingresso, appena saliti in metro, semplicemente perché nemmeno si sono accorti che tu ci sei. Non é una questione di mancanza di rispetto: la questione é culturale, sociale se vogliamo, e consiste essenzialmente nel fatto che l’altro da sé non esiste. E questo é causa e allo stesso tempo conseguenza del loro essere rumorosi, ottusi, troppo impegnati con lo smartphone a scrivacchiare o a parlare con un volume di voce cosí alto da rendere del tutto inutile il doversi servire del suddetto dispositivo. Ognuno per la sua strada. Che poi il piú delle volte é la stessa, per cui giú fiumane di gente che spintona e vocia, con l’aggravante che il cinese medio mangia regolarmente aglio a colazione, il che rende – come immaginerete – abbastanza impegnativa la traversata quotidiana, lunga duecento metri sottoterra per fare, trascinato dalla marea di gente, il cambio a Guomao, ogni santa mattina che Confucio mette in terra.

A volte penso che non ce la faró mai.
E quel che é peggio é che penso che addirittura io non voglio nemmeno farcela.
Mi dico “ma io qui ci lavoro, mica deve diventare casa mia… io non sono questa roba qui… ma a me di tutto questo che me ne frega”, il che é anche vero (finché lo sputo a terra mi fa ribrezzo siamo a posto: vuol dire che non mi troveró io stesso a scaracchiare in giro senza farci caso), ma giá mentre lo dico, in realtá, sento come una nota stonata.
Una nota a cui una frase dettami da una persona ha dato come una fisionomia piú chiara.
Questa persona (occidentale e periodicamente per lunghi periodi in Cina per lavoro), mentre parlavamo di tutt’altro mi ha fatto: “non c’é cosa piú miserabile di questi stranieri che sono qui da secoli e che non hanno mai cercato nemmeno di capire e di entrare in rapporto con questa umanitá: appena si lasciano andare un po’ parlano dei cinesi peggio che dei nazisti. E tu li senti parlare e pensi: ma che fallito meschino fuori di testa é questo qui..! Per te é ancora presto e lo capisco… ma l’alternativa é semplice: puoi scegliere di fare una vita completa qui, o di fare l’Expat per il resto dei tuoi giorni, e usare i cinesi come flashlights o quel che é peggio come semplice fonte di guadagno”.
É stato come ricevere un cazzotto nello stomaco.
Badate bene, questo non rende meno vero tutto quello che ho scritto sopra, eh: conoscere l’impronta individualista e la totale mancanza di logica caratteristiche di questo popolo é necessario alla sopravvivenza ed é un aspetto del sapere entrare in rapporto con quello che hai di fronte. E non ho manco di per sé un’idea chiara di cosa significhi “avere una vita completa qui”.
Ma quando ingenuamente, poco dopo il mio arrivo, pensavo “Qui io ci devo stare e voglio diventare piú cinese dei cinesi” forse avevo in mente altro, qualcosa di piú “radicale”… e poi per la strada me lo sto perdendo.

Sto ancora pensando a come fare per raccogliere questa sfida.
Mi sento come davanti a un muro di gomma.
Forse dovrei davvero decidermi a seguire i consigli del mio capo e cominciare a frequentare dei corsi per imparare la lingua, che in genere, come dire, aiuta. E mettere un passo davanti all’altro, semplicemente.
(O piuttosto aspettare soltanto che questo post venga usato contro di me perché magari chi lo leggerá fra un annetto o due vedrá che non é cambiato nulla… perché accadrá, eccome se accadrá)

Non lo so. Cambio idea ogni dieci minuti con una volubilitá che manco fossi in piena sindrome premestruale.
Peró credo che almeno un passo debba farlo perché ho deciso di rimanere in Cina ancora per tutto il prossimo anno. E anche se il fatto di stare sei mesi qui cinque mesi lá e dover ricominciare sempre tutto da capo non aiuta, io in qualche modo devo cominciare a fare i conti con questa sensazione di “stare perdendomi qualcosa” che costantemente mi porto addosso. Vediamo.

E comunque una cosa chiara in testa ce l’ho: “Fallito miserabile fuori di testa” A ME NON ME LO DICI, VABBENE?

2 pensieri su “61. Expats e muri di gomma

  1. La tua sincerità è spiazzante ma altrettanto spiazzante è la sfida che hai davanti…Coraggio!!Più cinese dei cinesi(magari senza sputi…ok?)!
    mb

  2. Più cinesi dei cinesi non lo saremo mai,la cultura fa parte del DNA. Ed expat lo saremo sempre, perché non andremo mai a far la fila al Chaoyang Hospital, compreremo sempre la mozzarella al Jenny Lou e non sputeremo mai per terra. Tuttavia – parafrasando Seneca – non dobbiamo cambiare il cielo sotto cui viviamo (tanto più che lo abbiamo scelto, no?) ma la nostra attitudine. Poi anche fosse, si prende un aereo e si va! Comesenoncifosseundomani 🙂

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