Siccome scrivere di quello che penso e di come mi sento mi annoia e per di piú non gliene frega niente a nessuno, com’é giusto che sia, il racconto di questa mia prima-Primavera a Pechino preferisco farlo condividendo quello che vedo e che faccio. Non ho certo intenzione di trasformare questo spazio in un blog di viaggi ma parlare e mostrare immagini delle mie scoperte in luoghi che da oscuri e ostili diventano a poco a poco familiari e accoglienti, cercando semplicemente di descrivere quello di cui mi riempio volentieri il tempo libero e gli occhi, in genere funziona abbastanza bene anche come “rappresentazione interiore”. Non sará difficile, credo, interpretare il mio stato d’animo mentre osservo questi posti nel pieno della celebre Beijing Spring: non solo ormoni che si accappottano – che io boh, gente, neanche a quindici anni… -, giornate di cielo limpido e rinascita della natura ma, finalmente, un rinnovato interesse per la cittá che oggi é casa mia.
Jingshan Park
“There are nine million bycicles in Beijing“, cantava Katie Milua nel 2005. Dieci anni dopo i nove milioni di biciclette sono state sostituite da altrettanti motorini e macchinine elettriche, che non essendo ancora ben regolamentati dal Codice della Strada locale, viaggiano indisturbati su corsie ciclabili e perfino marciapiedi.
In compenso, quanto é caotico il modo di vivere la strada, tanto é bello il modo di vivere i parchi. Jingshan Park é, fra quelli che ho visitato, quello che mi é piaciuto di piú. Situato oltre il fronte settentrionale della Cittá proibita, ha il suo fulcro in un tempio sulla sommitá di una collina da cui si gode di una vista strepitosa di essa e, verso Nord-Ovest, dell’area intorno ai laghi di Gulou.
Langyuan Vintage
Vicino Guomao, appena accanto al nuovo centro direzionale che preme l’intorno con i suoi palazzi di cinquanta piani e gli alberghi a cinque stelle, c’é un vuoto urbano. Lo percorre al centro, tagliando verso il fiume, una strada pedonale che si estende fra Tonghuihe North Side road e la Jianguo Lu (la grande arteria che percorre la cittá da est a ovest passando da Tiananmen), all’altezza del Sofitel. Qui non si é distrutto e ricostruito, come qui in Cina sempre si fa: si é riqualificato. Vorrei un ufficio qui, al secondo piano di queste palazzine col ballatoio, fra un art-gallery e una caffetteria.
Linked Hybrid by Steven Holl
Come tanta parte della produzione di Steven Holl non ha una forma “rassicurante”: formalmente é piuttosto uno schiaffo e il pensiero di tutti quegli appartamenti senza un solo sfogo esterno (che sia un terrazzo, una loggia, un cazzo di qualcosa) mi fa un po’ venire i bordoni. Peró mi piace: é coraggioso, mi sembra ben relazionato con l’ambiente circostante… e tutto sommato questo sistema “ibrido”, in cui funzioni pubbliche e private coesistono senza che una netta separazione sia denunciata all’esterno, sembra che funzioni perché ho avuto la senzazione di una cosa viva e pulsante all’interno. Fighissimi i bracci di collegamento aereo fra un edificio e l’altro: grazie a una signora Finlandese sbucata dal nulla che mi ha visto curiosare e mi ha autorizzato ad entrare ho fatto tutto il percorso in quota fra sala conferenze, piscina e palestra. Che le foto non fossero autorizzate all’interno é ovviamente un fattore del tutto marginale.
Wangjing Soho by Zaha Hadid
Se il Galaxy Soho, di cui avevo parlato QUI nell’ultimo post, si era piazzato abbastanza bene nella personale classifica dei luoghi di Beijing che piú mi hanno messo avvilizione, il Wangjing Soho non si é rivelato da meno. Non volendo rincarare la dose critica mi limiteró a mostrare le immagini di seguito, anche dello scenario urbano allucinante in cui sorge, come un’astronave atterrata da chissá dove. Mi sento di “spezzare un’arancia” per l’aspetto volumetrico, che é davvero d’impatto, specialmente da lontano. Gli edifici mi sono sembrati, piú che “tre ventagli cinesi danzanti” come fu detto dalla critica in occasione della presentazione del progetto, tre enormi ciottoli di fiume infilati nella ghiaia di un giardino Zen: gli spazi esterni sono caratterizzati da forme fluide e organiche, come fossero una perturbazione generata nel terreno da questa massiccia presenza, e tutto sommato mi sono sembrate l’aspetto piú riuscito dell’intero intervento.
Per il momento, dal vostro Martino Daverio é tutto… ma siccome mi sembrava di non aver girato abbastanza ieri sono finalmente andato al Great Wall.
Seguiranno aggiornamenti a breve: rimanete sintonizzati.