Sulla Terra ci sono infiniti luoghi. Ci sono luoghi che sono luoghi, ci sono luoghi che sono non-luoghi, luoghi che sono momenti, attimi, altri che sono sapori e odori, e altri ancora che sono mondi interi. Di quest’ultima categoria fa parte quello che ho vissuto nella terza e ultima tappa del mio viaggio in Myanmar: il Lago Inle.
É con estrema pigrizia che mi metto a provare a descrivere a parole questa esperienza, e non so se questo dipenda dal mezzo chilo di pollo che ho appena messo in corpo annaffiato da un Chianti di fortuna raccattato al supermercato qui sotto (probabilmente fatto con le pasticche) o da un vago senso di frustrazione, una punta di fastidio dovuta alla chiara incapacitá di ripercorrere, a posteriori, quel moto dell’anima che é stata la mia permanenza per due giorni in questo mondo.
Il lago Inle é davvero un mondo a sé.
É uno specchio d’acqua densa e scura, profondo probabilmente non piú di un cristiano messo per ritto, posto a novecento metri sul livello del mare in mezzo a una vallata circondata da montagne che appaiono come un muro invalicabile per il resto del mondo: tutto ció che lo abita galleggia. Che siano piantagioni di verdura, banchi di mercato o esseri umani impegnati a mantenersi in equilibrio in un mondo in cui la Natura detta le regole, dá e toglie, limita e aiuta, dá risorse e disagio, tutto si svolge dal pelo dell’acqua e non piú di due metri di altezza. La superficie é una lamina che cambia colore ogni cinque minuti, solcata da imbarcazioni scattanti ed esili come libellule e in cui, se hai la fortuna di viverla come ho fatto io – in un albergo posto nel bel mezzo del lago, lontano da ogni altra forma di vita – il tempo scorre secondo una dinamica propria, deteminata solo dal movimento del sole e delle nuvole. Alle cinque del mattino, appena il cielo comincia a rischiarare, i rumori delle barche a motore ti svegliano e in poco tempo tutto comincia a mettersi in movimento; alle sei del pomeriggio tutto giá tace, e le macchie di vegetazione lacustre sotto la luce del tramonto smettono progressivamente di muoversi solcate dalle ultime barchette nere, ormai naturale estensione del corpo di coloro che, armati di remi o pali di legno, si spingono verso casa. Quello che c’é nel mezzo é un continuo movimento di mercati, battute di pesca, raccolti, facce cotte dal sole, corpi esili dalle braccia muscolose perché abituati a prendere una barca e remare anche per andare a trovare il vicino di casa, sotto l’eco costante della preghiera proveniente dal Tempio in lontananza. Nel mio caso non sono mancate nemmeno delle regate fra barche lunghissime spinte da ragazzi che remano con i piedi, fenomeno tipico del festival Thadingyut che, cosa di cui ero serenamente allo scuro, si svolge esattamente nei gioni in cui sono andato io.
Il lago Inle é cosí un microcosmo appartentemente autosufficiente e imperturbabile, in cui vorresti stare di piú per vedere la gente come vive, cosa fa quando tutto diventa buio, come tiene al riparo sé e le proprie famiglie. Non ho potuto e mi sono limitato a guardare le stelle dalla terrazza della mia palafitta, in solitudine, alle otto di sera credendo che fosse mezzanotte passata, cercando con un mastodontico sforzo di immaginazione di immedesimarmi in chi una realtá cosí la vive ogni giorno.
Nello scrivere a ritroso i post di questi giorni stavo navigando in internet cercando di colmare le mie imperdonabili lacune cognitive sul Myanmar, e sono incappato in una citazione di Tiziano Terzani che dice: “Ci sono viste al mondo dinanzi alle quali uno si sente fiero di appartenere alla razza umana: Bagan all’alba è una di queste”. Io posso sottoscrivere in pieno questa frase perché io c’ero a Bagan, all’alba, aggrappato a piedi nudi in vetta a quella pagoda. Cosí come ero anche in barca al tramonto sul letto di nuvole riflesse dal Lago Inle e posso assicurare che il sentimento che ho provato é assolutamente il medesimo.
Traversata Nord-Sud.
Albergo sulle palaffitte nel bel mezzo del lago.
Tour del lago.
“Floating gardens”.
Mercato galleggiante.
“Soggettive” dalla barca.
Pubblico in conclusione uno scatto della mia “agenda” (come avevo giá fatto per il Giappone) in cui ho riportato il mio programma di viaggio: io l’ho tirato giú in pochi giorni, senza leggere guide ma affidandomi a consigli di anime buone che mi sono venute in soccorso su Twitter e Snapchat. Se volete visitare il Myanmar pur avendo solo una settimana a disposizione – e siete disposti a “pedalare” per non perdere le cose piú significative – vi consiglio di fare una schedule sulla falsariga di questo itinerario. Personalmente mi sono trovato molto bene.
Senza parole… quanto bello…