Ho passato il weekend a Guangzhou. C’era il sole a Guangzhou, c’erano gli amici, c’erano cose da vedere e posti dove passare la serata o il pomeriggio. C’erano giardini, viali, biciclette, gente seduta davanti a ristoranti, locali, bar segreti e non, ma soprattutto c’era il sole. E gli amici.
Sono tornato a Wuhan in serata, ieri, e faceva caldo, quasi venti gradi, e ho perfino pensato che magari avevamo svoltato e che il giro di boa della fine dell’inverno era arrivato.
Ma questo era ieri.
Oggi siamo andati in cantiere e la temperatura segnava cinque gradi, in diminuzione nei prossimi giorni. Ho provato a ricordare l’ultima volta che c’era stato il sole ma non pervenuto. Il cantiere è bello, ma otto mesi di fila comincia a essere un po’ tosto. Fuori, un polverone senza fine, con la ghiaia sparata negli occhi da un vento tagliente e improvviso. In ufficio andava meglio, perché nel mio “ufficio” (se di ufficio si può parlare, visto che di fatto siamo parcheggiati in un locale che sarà destinato a magazzino) non ci sono finestre e quindi il vento non entra. Potrebbe saltare in aria la regione intera, piovere lapilli di fuoco, rane o gnomi che scoreggiano arcobaleni, fuori dall’ufficio, e nessuno se ne accorgerebbe. I bagni da giorni non hanno corrente e acqua e ho insistito per l’ennesima volta che ponessero rimedio. “Dopo pranzo li aggiustano”. Va bene. Nella febbrile attesa di poter cagare in santa pace ho cercato di far capire al responsabile (non all’ultimo degli operai, ma al responsabile) delle tinteggiature che c’era un errore sui suoi disegni ma non parla una parola di inglese, il responsabile, per cui ho sbracciato venti minuti e scarabocchiato mezzo blocco note per fargli capire il problema. Alla fine no, non l’ha capito. Dopo un pranzo di tre minuti di orologio ho preso la chiave del bagno e visto che non c’era la targhetta ho provato a capire quale fosse. Al terzo tentativo fallito sono tornato indietro chiedendolo alla portinaia ma non parla una parola di inglese manco la portinaia e di qualcuno che parla inglese in giro, in quel momento, nemmeno l’ombra: per cui l’ho presa per un braccio e le ho detto di portarmi al bagno. Come un novantenne con l’Alzheimer che si è perso nei corridoi della casa di riposo. Ha rifatto il giro di tutti i bagni e finalmente ha trovato quello buono. Sono entrato e non c’era la corrente elettrica. Non c’era nemmeno l’acqua, se è per questo. Al che ho preso a calci il cestino dei rifiuti, sono tornato in ufficio (ok chiamiamolo convenzionalmente “ufficio”, ok?), ho fatto fagotto e me ne sono andato, fra gli sguardi attoniti degli astanti.
Ho preso un treno alla stazione di fronte gridando al tipo della biglietteria il nome della destinazione in accento sgangherato, sono arrivato alla stazione centrale e sono entrato a comprare le sigarette con l’intenzione di fumarmene dieci di fila perché ero calmo parecchio: erano lì, sullo scaffale, e il tizio non ha voluto vendermele. Ho preso un panino da McDonald’s con patatine e Coca-Cola d’ordinanza e mi sono arrivate due patatine e due Coca-Cole, perché le prime erano già comprese nel prezzo del panino e non gli è venuto in mente che io, da solo, di patatine e Coca-Cole ne potessi volere solo una. Ho fatto il biglietto della metro, superato i tornelli e ad attendermi c’era una hall attraversata da un’indicibile selva di ringhiere che obbligavano a camminare a zigzag per duecentocinquanta metri buoni per arrivare al controllo del bagaglio… che era a nemmeno dieci metri “in linea d’aria” davanti a me. A precedermi in fila una sola ragazza, che camminava muta subendo a testa china sul telefono quella gincana senza senso d’esistere.
È stato in quell’istante che dentro di me è scattato qualcosa, leggasi “ho sbroccato”. Ho scavalcato tutte le transenne come un centometrista a ostacoli, tuonando bestemmie in toscano stretto contro Confucio, Mao, Bruce Lee e l’incantevole Creamy. La ragazza al controllo bagagli ha sgranato tanto d’occhi e ha provato in maniera tiepida ad alzare la paletta per fermarmi e far passare la mia borsa nello scanner. L’ho fulminata con uno sguardo così truce che credo sia ancora lì, immobile, con una paletta carbonizzata in mano. Mentre salivo in metro una voce in filodiffusione invitava, in inglese, ad attenersi alle regole per una felice cooperazione. Il mio “andatevenaffanculo” sta ancora risuonando nella metropolitana.
Ne ho le scatole piene di questo posto.
Mi sono rotto i coglioni.
Sono pieno.
No Maria io esco.
E altre frasi equivalenti.
Ed è solo lunedì.
Coraggio. Ti sono vicina. Un’expat in Germania che sopravvive solo perché una volta al mese rientra…
Pensavo di essere l’unica expat in Germania che punta a sopravvivere.
Fino ad ora ho letto solo di gente entusiasta e credevo di essere io quella sbagliata.
Grazie. Mi sento meno sola.
Ti vogliamo bene…da qui in partenza un carico di affetto….italiano.
Resisti Martino…Resisti!!+
Io non so che dire.
Qui in Germania, nella città di merda in cui sono finita, provo le stesse tue sensazioni.
Quindi, per quel che vale, ti mando un abbraccio.
Ciao Martino,
Ho commentato varie volte su questo tema sul tuo blog. Posso capire che tu abbia questi momenti di giramenti di coglioni. Li abbiamo tutti anche quando siamo a casa. Ognuno con la propria prospettiva come al solito.
Io li ho quando penso in che posto di merda sono finita e in cui non mi sarei mai trasferita, ma ahimè ci devo stare.
Vivo in Italia e in una regione vicina a quella natia, ma un qualsiasi indigeno mi dice, velatamente o meno: “che ci fai qui? È tanto bella la tua terra!”.
Puoi immaginare quanto mi innervosisca in quei momenti, più di quanto non lo sia già per la situazione in cui mi vedo costretta a vivere.
Beato te che puoi mandarli a fanculo gridando senza che capiscano: per lo meno immagino che sia stato tanto liberatorio!
Un abbraccio
Dai dai dai, su, coraggio! Ce la faremo.
Forse ce la stiamo giá facendo. Grazie