160. Il Virus e l’ondata di ritorno

Non so nemmeno da che parte rifarmi.
Non so nemmeno da che parte rifarmi ma un paio di persone che mi vogliono bene mi hanno suggerito di approfittare di questo tempo che (mio malgrado) mi è dato per rimettermi a scrivere.
E allora, siccome appunto non sapevo da che parte rifarmi ho riaperto il blog dopo più di due anni dall’abbandono e sono qui che ci sto scrivendo sopra, di getto, direttamente nell’editor di wordpress. Alla cazzo di cane.

Il blog io l’avevo messo in sospeso perché erano successe alcune cose nella mia vita che l’avevano rimescolata parecchio, e allora io avevo preso e chiuso tutto usando questo spazio esclusivamente, ogni tanto, per dei meri e casuali appunti di viaggio di cui volevo mettere al corrente i miei amici non dotati di IG. E l’avevo chiuso non perché mi fossi dimenticato di quanto fosse stato indispensabile per me condividere qui sopra parte della mia storia, ma perché sarebbe stato disonesto, per me, cominciare ad un tratto a parlare qui sopra di lifestyle e localini alla moda della movida pechinese, smettendola di raccontare me stesso o concedendomi di farlo in modo parziale, tagliando fuori la parte più interessante e profonda delle mie scoperte. Scoperte che riguardano prima di tutto me stesso, la vita che faccio, la nuova prospettiva che una vita da expat in pianta stabile, dopo tanti anni di pellegrinaggi in giro per la Cina, mi aveva aperto facendomi improvvisamente dire “La mia casa sono io, la mia vita adesso è qua”. Scoperte che non solo non ero pronto a condividere su un blog (non lo sono nemmeno adesso) ma che non riuscivo nemmeno a mettere in ordine, nero su bianco, e dargli un verso nonostante il potere catartico che la scrittura ha per me sempre avuto.
D’altronde avevo avuto il mio bel da fare: dopo i mesi solitari a Wuhan e Guangzhou, a Beijing la mia vita era finalmente ripartita su molti fronti e allora chi si era più posto il problema di prendersi del tempo per riaprire il laptop e rimettersi davanti a una pagina bianca!
“Laowai” aveva già tirato una riga su quella prima fase della mia vita in Cina, e mi stava bene così.

Poi è arrivato lui, e per la prima volta ha davvero nuovamente spostato la prospettiva: ha preso la mia vita come l’ha trovata in quel momento, bella sistemata su una nuova comfort-zone, e ne ha rimescolate le carte. Ma più che altro ha creato dal niente del tempo laddove tempo sembrava non essercene più. Lo stronzo.
“Lui” chi? Il Covid-19, the novel coronavirus Made in China, peraltro targato Wuhan.

La foto sopra vi mostra dove sono adesso: se ci fate caso mi vedete anche, dietro ai vetri di una finestra del terzo piano. Come ci sono finito lo sanno tutti, ne hanno parlato anche i giornali, ma lo voglio riscrivere in breve perché magari un giorno lo racconterò ai nipoti di qualcun altro, e allora i giornali non ci saranno più, e nemmeno le televisioni e nemmeno Instagram ma il blog, quello sì, sarà ancora qui a perseguitarmi/vi/ci.

L’anno 2020 era già cominciato a merda con una valigia persa al mio rientro in Cina dopo le vacanze di Natale e un’eruzione vulcanica a Manila nel giorno del mio acquisto di biglietti per le Filippine e un braccio semi-rotto a Siargao (no, non ripartirò con questa tiritera del mio viaggio, le cui sfighe avevo già raccontato qui), poi però è arrivato lui e c’ha tenuto subito a far capire chi è che comandava.
All’inizio si è trattato di stare a lavorare da casa qualche giorno, a Pechino, perché gli uffici erano chiusi per via del contagio, e non si sapeva bene a cosa ci trovavamo di fronte. Poi i ristoranti hanno cominciato a dire “qui dentro non vi facciamo togliere la mascherina per cui o take away o cannuccia nelle orecchie” per cui abbiamo smesso di uscire la sera. Poi sono comparsi banchetti all’ingresso di qualsiasi condominio, ristorante, vicinato, con omini in divisa che ti misuravano la temperatura e schedavano all’ingresso, per cui i giorni in casa sono diventati lunghi e solitari. Quando nei palazzi hanno cominciato anche a proibire l’accesso ai visitatori e ai servizi di consegna a domicilio, abbiamo capito che non era “solo una cazzo di influenza” (auto-cit.) e abbiamo cominciato a preoccuparci.
Al che, quando i miei capi mi hanno detto “beh, ma se devi stare a casa da solo e lavorare in remoto, torna in Italia ad aspettare che le cose si sistemino”, ho preso un volo la notte stessa con scalo ad Abu Dhabi, dicendo ai miei “preparate una brandina in mansarda che arrivo”, e sono partito. Genio, che non sono altro.
Durante le ore del mio volo il virus è arrivato in Italia, allarmando tutti, e non dalla folta comunità cinese come in molti si sarebbero aspettati, ma con un contagio tutto nostrano, con la conseguenza che io, appena arrivato a casa dai miei, mi sono ritrovato chiuso nella loro mansarda per due settimane, senza poter dare un’abbraccio a mia mamma o condividere un pasto con loro.

Tempo ne ho avuto, nonostante comunque avessi da lavorare, ma nemmeno allora il pungolo della scrittura era tornato fuori. Era già però chiaro che tutta la mia routine, tutta la mia quotidianità era stata spazzata irrimediabilmente via: non si trattava stavolta di una pausa di qualche settimana, in cui vai in vacanza sapendo che al ritorno troverai ad aspettarti le cose come le hai lasciate, e sarà il male di sentire un po’ male agli addominali alla ripresa dell’allenamento… avevo già la percezione che sarebbe stata in qualche modo una vita da ricostruire, senza necessariamente nuove rivoluzioni copernicane ad attenderci, ma comunque da riformulare di sana pianta. Quando in Italia gli eventi hanno cominciato a prendere la stessa piega della Cina, se non peggio, ho capito che quello non era più il posto su cui investire per ricominciare, che il rimanere mi avrebbe relegato a un ennesimo stand-by, ospite per un tempo indistinto in una casa che non è la mia e, quando la mia (seconda, di fatto) quarantena è finita, ho affrettato le cose per poter rientrare in Cina dove, si diceva, Beijing stava tornando a vivere. Ero cosciente che ad aspettarmi ci sarebbe stato un nuovo periodo di isolamento, ma sapevo che potevo farlo fra le mura di casa mia, osservando dalla finestra il risveglio della primavera a Pechino, e la cosa mi è sembrata immediatamente più sopportabile.

Ed è stato a questo punto, colto col calice in mano, che ho smesso di ridere.
La sera del mio terzo giorno in casa ho ricevuto una telefonata in un inglese stentato che mi diceva che un caso di Covid-19 era stato individuato sul mio volo per la Cina.
Mi diceva che pertanto mi avrebbero introdotto dentro un nuovo protocollo di sorveglianza medica e che per questo avrei dovuto farmi trovare pronto perché sarebbero passati a prelevarmi entro venti minuti. “Non le serve niente, non abbiamo tempo”. Ho smesso di ridere eccome.

Lo so, sto solo ripetendo per l’ennesima volta cosa già sentite, dette e ridette, ma lo faccio prima di tutto per me stesso… Suppongo che avessero ragione, che scrivere mi faccia bene, anche solo perché mi permette di fare ordine, di ripensare alle cose accadute, metterci una distanza e guardarle con ironia, fino a tirare una riga. Magari un giorno riuscirà anche a farmi dimenticare la sensazione di totale abbandono quando la porta della stanza 404 si è chiusa alle mie spalle nel cuore della notte, tra me e i tipi che mi ci avevano accompagnato, incappucciati nelle tute sterili, camminando a due metri di distanza da me alla luce delle sirene dell’ambulanza. O il panico quando ho visto che nella stanza non c’era il QRcode che avrei dovuto scannerizzare per mettermi in contatto con chi avrebbe dovuto supervisionare il mio periodo di isolamento. O la sensazione di desolazione provata di fronte al vassoio pieno di roba fredda insipida e unta, poggiato sullo sgabello davanti alla porta di un bagno squallido e vecchio come il cucco (tutta la storia la trovate QUI).
Se c’è una lezione che ho imparato, però, da quando martinoexpress è nato, è che nel momento della crisi ci si ritrovano addosso delle risorse insperate, e che poi le energie per affrontare la difficoltà si trovano, inaspettatamente, giorno per giorno. Sono le stesse energie che mi hanno permesso di trasformare l’anno di vita a Wuhan in un’avventura, e che ora mi permettono di pensare ai prossimi giorni non SOLO come un tempo di “galera” ma come uno spazio NECESSARIO per non dare di matto e per prendermi cura di me, sia che significhi pulire la stanza per come posso avendo a disposizione solo salviette umidificate da culo, fare gli addominali sdraiato in un corridoio largo 90cm, mettere la sveglia ogni due ore per rendermi conto del passare del tempo… e magari proprio impormi di ritornare, da oggi, a scrivere per qualche ora, forse proprio nell’ottica della ricostruzione di una routine di cui adesso sento una grande esigenza.

Chissà che sia proprio questa, dopo due anni, la mia ondata di ritorno.

Non so con quale puntualità tornerò a farlo sul blog (d’altronde non siamo più nel 2009) ma, se vi va di riaffacciarvi qui sopra qualche volta, magari troverete cose nuove. Nel frattempo ho cominciato a mettere assieme i pezzi di altre narrazioni che per ora servono solo a me, ma che magari un giorno troverò il desiderio di condividere. D’altronde vai a sapere la piega che gli eventi prenderanno…